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Posts Tagged ‘mah’

Chi lo sa cosa abbiamo nella testa….?
Ognuno combatte, e ferocemente, convinto di essere il depositario di una verità incontrovertibile.
Non so cosa sia che ci fa combattere. Non so cosa sia che ci fa alleare.
So solo, ormai tristemente, che nella lotta come nell’alleanza è insita una straordinaria fragilità.
Sembrano entrambi rapporti di fortissima tempra e sono capaci di indicibili crudeltà e violenze o straordinari miracoli della volontà… ma basta un piccolo refolo di vento per gettarli a terra.
Cosa avrà spinto alcune cellule ad allearsi, milioni di anni fa?
Forse la lotta. La lotta spinse finché non fu l’alleanza a trionfare. E quelle microscopiche cellule ne incorporarono altre, specializzate in funzioni precise per creare una unità, un essere nuovo, composto di altri esseri.
Migliaia di milioni di cellule si sono specializzate, sono diventate assolutamente funzionali e specifiche per un singolo compito, per dare forma ad un particolare elemento che composto nell’alleanza di tutti quegli organismi ha creato un gatto, una rana, un albero… me.
Ho coinvolto migliaia di milioni di organismi per essere qui. Organismi che fanno capelli, pelle, trasportano ossigeno, combattono minacce e mi rendono capace di vedere, di pensare, di essere un singolo e a mia volta dovermi chiedere di nuovo quali alleanze e quali lotte mi debbano impegnare.
Spostando la scala non è cambiato molto. Si è elevata alla potenza la complessità ma non il dramma primario della sopravvivenza.
E tutti lottiamo per essa.
O meglio, lottiamo per la nostra idea di essa.
Ferocemente.
In fondo ogni nostro comportamento è puramente speculativo. La tavolozza del pensiero ci dona la possibilità di dipingere un grande affresco che coprirà comunque un muro. Il muro permane, dietro l’affresco.
Il muro è la sopravvivenza e la nostra idea di essa. Qualunque cosa dipingeremo sulla sua superficie non può essere indipendente dal supporto.
Le nostre giustificazioni, le nostre illusioni, le nostre preoccupazioni sono solo pennellate di colore su un muro. Non cambia la struttura dei mattoni, non ne varia l’inclinazione, la compattezza o la posizione.
Sopravvivere è difficile.
La vita su questo pianeta è una specie di virus. In realtà non è così rara e preziosa come di solito ci viene propinata. Persino negli abissi oceanici, abbarbicati a fumarole vulcaniche in ebollizione a centinaia di gradi vi sono forme di vita.
E’ più indistruttibile che fragile. La vita di un singolo è fragile.
Forse di un’intera specie. Ma non la vita in se.
Essa è quasi indistruttibile.
Ma è difficile avere a che fare con essa, perché include una serie quasi illimitata di problematiche.
Cibo, riparo, condizioni climatiche affrontabili, riproduzione, sicurezza….
Necessita di molte cose l’organismo vivo. Quelle migliaia di milioni di organismi creano un organismo che avrà bisogno di altri organismi per sopravvivere. Principalmente dovrà mangiarli.
Siano statici vegetali o fuggenti prede animali poco importa. Nessun organismo sul pianeta vive d’aria o di amore. apparentemente il mondo vegetale è un po’ più compito e generalmente pacifico, ma anche all’interno dei suoi equilibri vi sono necessità lotte e violenze.
Per cui con altri organismi si avranno solo due opzioni possibili: lotta o alleanza.
La lotta forse è più semplice. Occorre solamente uccidere o essere più furbi o veloci.
L’alleanza è un problema più spinoso….
Essa sconfina nel nebuloso campo degli equilibri e, per noi purtroppo pensanti, di un elemento difficilmente inquadrabile e assolutamente non misurabile: la fiducia.
Fidarsi.
In un mondo di organismi disposti a tutto pur di assicurarsi la sopravvivenza (o la propria idea di essa) fidarsi non sembra proprio essere una soluzione brillante.
Basta un minimo cambio di equilibrio ed un alleato può trasformarsi in minaccia. Un cambio di equilibrio che spesso non è manifesto e rilevabile.
Pur con tutta l’attenzione possibile, con tutta la percezione impiegabile, non è detto che l’alleato non si volterà di colpo senza preavviso avventandosi su di noi.
Occorre fede, forse… ma la trascendenza non rientra nel campo del reale.
La fede è sublime, ma deve essere mediata dall’osservazione della realtà.
Per questo ho sempre lodato la speranza e sempre detestato la fede.
La speranza è una fede che può essere smentita e non da garanzie immediate.
La fede è rassicurante, proprio perché non fa i conti con la realtà e non viene solo smentita, viene distrutta.
Quindi le nostre alleanze dovrebbero basarsi sulla speranza, più che sulla fede. Un conto è non essere sufficientemente percettivi, un conto è voltarsi direttamente dall’altra parte vivendo nel mondo dei puffi……
Io sono molto attento e non ho alcun tipo di fiducia negli esseri umani.
Gli esseri umani la tirano, la menano, la dipingono e la interpretano ma non sono differenti dagli organismi che li hanno costituiti. Si sono alleati per essere più potenti, per difendersi ed attaccare meglio. Non per fede.
Un reciproco beneficio è misurabile, è concreto, è reale.
Non che io ami tali cose!
Da sempre inveisco contro gli umani e contro la scienza umana la quale dimostran sempre di non credere possibile ciò che non sia misurabile o rilevabile.
Vi sono molte forze in questo multiverso, alcune sono sicuramente inconcepibili per noi, ma rimanendo nei nostri poveri stracci credo che sull’alleanza non stiamo facendo molti passi in avanti.
Ci alleiamo per fede e non per speranza. Ci alleiamo perché lo riteniamo conveniente e finché lo riteniamo conveniente… ma non è quasi mai il termine con cui diamo vita all’alleanza.
Non mi disturba la fine di un sodalizio, ma non sopporto il tradimento.
Ed il tradimento esiste solo quando il termine con cui il sodalizio abbia avuto inizio venga disatteso (o addirittura calpestato e snaturato).
A livello biochimico, senza il grosso problema del linguaggio (quindi interpretabilità), credo funzioni tutto molto più liscio. Le cellule dei capelli devono far capelli… non ci sono cazzi.
Se ci sono problemi è una disfunzione che spesso genera un gruppo di cellule ribelli ed impazzite che noi ben conosciamo come tumore o cancro.
Una disfunzione che finisce spesso per far crollare l’intera struttura causando la morte dell’organismo di organismi.
Tutti muoiono perché a qualcuno è tirato un attimo il culo. Rivolta interna guerra civile biochimica e tanti saluti.
Nel nostro macrocosmo non è così differente. Persino le alleanze più semplici, come un rapporto di coppia, si basano su equilibri così fragili da chiedersi come possano in alcuni casi essere fondamentali per la concretizzazione progettuale.
Alleanze che creano cose, case, famiglie, figli, città, popoli….
Basate sull’alleanza. Sulla speranza che ognuno manterrà la posizione concordata evitando il crollo della struttura. Piramidi di elefanti in bilico su piccole biglie.
Giganti con piedi di argilla.
Non le capisco più. Vedo solo rovine ed odo solo il rumore dei crolli.
Non solo nella mia vita, ma ovunque il mio sguardo spazi.
Sono al centro di un mondo che crolla. Un mondo di organismi che corrono impazziti verso una nuova alleanza, costruendo sempre sull’instabilità.
Mi si chiede come mai io sia così cinico nei confronti dei rapporti.
Come mai sia così pessimista.
Io, credo, di avere speranza. Tanta, forse molta di più di quanto i buontemponi che incrociano la mia strada possano immaginare.
Ma la speranza ha bisogno di una base solida. Speri che germogli una piantina nella fertile terra di un orto… nessuno è così scemo da sedersi nel bel mezzo di un deserto ed aspettare il primo fagiolo.
Io non riesco più a cedere la speranza all’illusione.
Non ho alcuna intenzione di sconvolgere la mia vita per ciò che è dipinto sul muro. Io resto dietro al mio muro anche se il mio affresco fa schifo. Perché questa è la mia sopravvivenza ed ho scelto le mie alleanze.
Alleanze che vivono per necessità e reciproco vantaggio. Non faccio le cose per fede.
Non sono un sognatore.
Io sogno cose belle non sogno cose.
E le cose belle non sono trasportabili nella realtà.
Perché non passano attraverso ai muri, anche se potrebbero passare attraverso gli affreschi.
Fate come volete.
Vi vedrò cadere, tutti, prima o poi.
Perché è sbagliata la radice.
Nemmeno sappiamo cosa ci faccia male o bene, in realtà…
..come possiamo sapere cosa ci convenga e con chi allearci per una reciproca convenienza?
Il caos regna e la fede non ci aiuterà.
Ci aiuterebbe fare i conti con ciò che siamo e dichiarare i nostri bisogni per la sopravvivenza.
Ma il muro è dietro al colore, dietro le forme.
Noi vendiamo colore e forma senza informare il cliente che ci sarà anche qualche tonnellata di mattoni da spostare.
Ed è molto più conveniente non dire mai la verità, per quanto sia orribile.
Preferirei dover spiegare le mie mancanze o difendermi da un’accusa (specialmente se mi ritenessi innocente) che dover mentire ai mentitori perché è una scorciatoia più facile.
Prendi il piccone.
Sfascia quel cazzo di affresco.
E’ col muro che devi allearti, non con il suo decoro.

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“Ieri la mia vita andava in una direzione. Oggi va verso un’altra. Ieri credevo che non avrei mai fatto quello che ho fatto oggi. Queste forze che spesso ricreano Tempo e Spazio, che possono modellare e alterare chi immaginiamo di essere, cominciano molto prima che nasciamo e continuano dopo che spiriamo.”
(lo scienziato Isaac Sachs)

E se non va in nessuna direzione?
L’Atlante delle nuvole questo non lo spiega. Certo, incantevolmente spreme sulla tavolozza immagini e suoni, parole ed emozioni e le impasta sapientemente, perché è fatto con cura e criterio e rimane un bellissimo film.
In qualche modo, anche io percepisco questo panteismo invisibile, questo susseguirsi di situazioni e di emozioni, che si intrecciano in figure impossibili attraversando le dimensioni conosciute e sconosciute nelle quali siamo immersi.
Viene solo da chiedersi, piuttosto egoisticamente, che cosa me ne freghi del continuum bioemozionale della specie, della vita o dell’universo se la parte che dovrò recitare nel mosaico sarà modestamente penosa.
Non inutile, perché ovviamente non esiste una tessera in questo mosaico che non debba esistere e che non abbia una specifica collocazione preposta alla funzione del tutto alla quale dovrà appartenere.
Ma tristemente pietosa, può benissimo esserlo.
L’uomo fallito, dai cui fallimenti verranno spersi i potenziali germi di nuove folgoranti vittorie non solo non avrà coscienza, essendo inserito nel tempo e non ad esso parallelo, ma non ne avrebbe nemmeno consolazione pur avendone conoscenza.
In termini utilitaristici che questo flusso di vita e coscienza e memoria e materia possa portare a qualche disarmante conclusione rivelatrice….. non fa la minima differenza per la vita della singola entità che ne fa parte.
La sveglia di domattina mi fracasserà i coglioni comunque, a prescindere dal fatto che l’umanità possa ritrovare tra centinaia di anni le stronzate che ho scritto in rete e trovarle salvifiche.
Non è che me ne possa fregare molto di salvare il mondo stasera, tra centinaia di anni non può assolutamente fottermene alcun che di quanto accadrà.
In fin dei conti a nessuno frega niente del grande rivoluzionarsi ed evolversi del cosmo intero quando la persona amata non se lo caga.
Ed è qui, sull’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo che la mente umana vacilla.
La sveglia, la persona amata, il conto in banca, il mal di denti.
Questi, sono forse questi i demoni che avvelenano l’anima di noi incarnazioni dell’eterno?
Questo ci riporta ad uno stato mortale e materico tale da piegarci alle pastoie del tempo e dello spazio fino a cancellare ogni singulto di divinità dalle nostre essenze….
…oppure in certi film dicono un sacco di stronzate ed è tutto qui?
Forse è una domanda antica quanto l’uomo stesso. Lo stesso dilemma che pone quasi ogni culto misterico religioso, il suo potere (quasi impensabile) di spingere le singole esistenze addirittura al sacrificio, che è quanto di più avulso al normale svolgersi di desiderio ed aspirazione si possa ipotizzare.
L’annientamento dell’ego in favore del progetto.
Forse amo Cloud Atlas perché non pontifica su questo punto e non getta una risposta alle fauci della più beota scontatezza.
Come è auspicabile i personaggi, pur essendo ignare tessere, combattono per se stessi, per immediati bisogni, nella maggior parte dei casi. E quasi per caso, in fondo, lo svolgersi della storia li sfiora, rendendo ancora più marcata la loro funzione così fondamentale all’interno della loro essenza quasi trascurabile.
E se ogni intersezione, ogni contatto, ogni confronto con altre entità fa tremare tempo e spazio, creando bolle, vesciche rigonfie di universi potenziali e potenziali svolgimenti….
…perché sento questo universo così bloccato?
Sono io che sono troppo veloce….?
E’ la mia mente, la mia mente e la mia anima che sono come mastini denutriti lanciati sulla traccia invitante di una preda grassa e troppo lenta.
Esse vorrebbero, esse bramerebbero che si spalancasse un abisso, un gorgo di destini di fronte ad ogni nuovo contatto, perché per maledizione di nascita… io ho la capacità di percepirlo questo fenomeno.
E mente ed anima, alleate, iniziano a vomitare fiumi di immagini, di possibilità intersecate, di intrecci possibilistici e parabole vertiginose di situazione.
In questo circo deviante non c’è spazio nemmeno per il sonno, quando la notte questi demoni interni mi torturano e mi lacerano con i loro universi potenziali. Occhi sbarrati sul fioco lume dei numeri digitali di una radiosveglia, maledicendo la notte e l’alba che la tallona.
E poi anch’essa si presenta, radiosa ed immota come il cadavere di un martire. Il nuovo giorno costringe il mio io a rallentare, frena, schiaccia e blocca.
Si infrangono come macchine di lusso durante un crash test i miei universi notturni all’apertura del sipario giornaliero. Esplodono e mestamente ricadono come petali appassiti sul fiume del tempo reale.
Un fiume maestoso, possente… ma lento. Lento come un’agonia.
Mi accorgo sempre di più di avere vissuto mille vite, di avere amato, ucciso, costruito e distrutto.
Cose che non saranno mai. Con persone che non sapranno mai quali meraviglie abbiamo vissuto insieme.
Quali orrori o quali piaceri hanno condiviso con me solo perché un loro sguardo accendeva un desiderio o una loro frase stimolava una possibilità.
Quanto potenziale divino sprecato….
Rimarrà tutto in un universo mai visitabile?
La dove dormono i miei draghi su immensi tesori?
Credo di si.
La mia condanna è questa creatività inutile, questa velocità mentale inapplicabile, questa armonia quasi cinematografica che ho con le immagini, la musica e le parole.
Sono una tessera che non sembra trovare posto, che non sembra VOLER trovare posto.
In mezzo al mosaico io non riesco a sentirmi a mio agio.
Devo sempre allontanarmi da esso, per vederlo, per gustarlo.
Perché non mi consola la coscienza di essere parte di una meraviglia della quale io non possa percepire la bellezza.
Non mi consola…non me ne frega proprio un cazzo della funzione…
..voglio godere la bellezza.

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Ed eccoci qui, all’ultimo giorno dell’anno.
I Maya non intendevano dire un cazzo, la chiesa se la prende sempre con i
ricchioni e mai con i ricconi, il governo fa impallidire la gestione civica
dello sceriffo di Nottingham, gli elettrodomestici continuano a rompersi, la
gatta continua a distruggermi il copridivano, i miei rapporti sociali sono
sempre più disastrosi e devo ancora aspettare un cazzo di anno per vedere il
drago Smaug.

In larga sostanza non è cambiato niente.
Ne cambierà da mezzanotte.

A noi umani piace pensare che il tempo sia scandito quanto ce lo immaginiamo,
pur sapendo noi stessi quanto sia elastico, il vecchio bastardo, come
materiale. Inoltre noi non siamo altro che un sistema di granelli di polvere in
mezzo ad una tempesta di sabbia e molto probabilmente le tempistiche dell’intera
tempesta non sono nemmeno concepibili per le nostre percezioni.

Indubitabilmente però, come ogni anno, mi tira il culo.

Il capodanno rappresenta per me l’archetipo della serata infernale, nella quale
ci si dovrebbe divertire ma la cosa non succede mai. Sfogliandoli con la mente
ho ricordi tra l’inutile ed il terrificante di questa ricorrenza, dalle case
estranee in cui venivo trascinato da piccolo con i miei genitori ai disperati
che si autoinvitavano a casa mia all’ora di cena, non avendo trovato
alternativa migliore ma essendosi presi fino all’ultimo minuto per cercarla.
Inoltre la mia brontofobia non ha mai legato con i botti. Ero l’unico bambino
impazzito di terrore durante i fuochi d’artificio, solitamente.
Eppure c’è anche una piccola novità, forse non fondamentale ma si spera almeno
incoraggiante:
Il 2012 ha perso la sua difficile gara con il 2011.
Dal 2008 ogni anno era riuscito a surclassare il precedente  in maniera ineccepibile per quanto riguarda i
livelli di merda nei quali ero affondato.
Quest’anno si interrompe la catena, pur con tutti i suoi momenti down il 2012 è
riuscito a porsi come un anno equilibrato, esibendo persino sorprese
inaspettate e momenti quasi (mi raccomando QUASI) luminosi.
Non lo prenderò certo come motivo di speranza o promessa. Le nubi si addensano
sempre sul futuro, tanto da ricordarmi una famosa marcia verso Mordor.
Il mio paese cade a pezzi come una vecchia puttana che non si sia mai curata,
ed è superfluo fare i superiori mentre la terra frana sotto i piedi. I miei
occhi da Raistlin vedono già le cose cadere ed andare in rovina, il mio sguardo
implacabile scansiona il mondo senza tregua e trova i segni della fine in ogni
nuovo inizio.
Vedo già crepe dove gli intonaci sono ancora intonsi, vedo già paludi dove ora
scorrono limpidi ruscelli, vedo sforzi infrangersi come onde sugli scogli dell’impossibilità
e speranze dissolversi come nubi dopo tempeste di avversità…….
Ecco come la vedo io. La vedo una merda as usual.
Ed ora smetto di scrivere, che devo colorare ciò che è incolore, disegnare ciò
che è inesistente e distruggere i delicati rapporti che avevo messo in piedi.

Mi rimane meno di una settimana di ferie…. Sarà dura.

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Mi è capitato uno scambio di battute sul faccialibro che mi ha fatto riflettere.
Ordunque, vi è questa pulzella che ripescammo dal gorgo del tempo, la quale già dai tempi di scuola brillava in quanto bellezza e (a quanto mi dicono) anche in simpatica follia.
Essa guadagnasi da vivere in quel del litorale mescendo i vari ammazzacristiani liquidi sulla linea costiera, godendo, io suppongo, di ottima vista marittima e gavotta sociale per me assolutamente inconcepibile.
Essa, devo dire, con il tempo parmi ancora più bella, anche se non so se gentile ed onesta, ma sul paragone filosofale ipotetico con altre cerebroglandi incontrate parmi assai sulla linea della virtù tiepida, dopotutto.
Essa affolla spesso i miei mesti sogni di vegliardo, nonostante l’impossibilità ben conosciuta di qualsiasi contatto autentico, il quale d’altronde, potrebbe essere unicamente disastroso per quanto riguardi qualsiasi mia pulsione onirica.
Vi è gran quantità di immagini della soggetta in questione sul libro delle facce, e per un esteta rinchiuso nel proprio delirio la visione di tal luminosa bellezza è sempre dardo ferente, gocciante di clamoroso corrosivo veleno (alè!).
Vedendo le recenti immagini delle di lei frequentazioni notai un simpatico riquadro in cui erano rappresentati due uomini di maschile schiatta, entrambi giovani manzi ben in saluta, con la differenza principale nelle fattezze fisiognomiche, in particolar modo ventrali.
Lo primo, in sfondo avea poggiata sulla piastra addominale una testuggine perfetta, quasi di scultorea proposizione e oltretutto un viso da Apollo che avrebbe fatto innamorare persino le defunte, anche se da alcuni decenni.
Lo secondo, poggiante sul primo piano, esibiva le rotondità della sua zona ventrale con furbesca espressione canzonatoria, ben sapendo, suppongo, che nell’immagine digitale il contrasto delle due forme ravvicinate sarebbe risultato ancor più evidente all’umano apparato oculare.
Or mi venne, come sempre per mia disgrazia, di porre mia voce nel commentario sottostante, proprio sotto quella dello amico Bardo il quale poneva questione sulla veridicità materiale dello soggetto tartarugato sul fondo.
Ed io dissi così che se quello dietro era finto, quello davanti era felice.
Mentii, sapendo di mentire.
La pulzella, che io avrei giurato ignorar lo mio blaterale ribattè con piglio giustiere che la stessa energia da me posta nel ripulir piatti di pasta e boccali di birra dallo soggetto in questione era posta nell’esercizio fisico che tanto scultorea rendeva la di lui figura.
E se la sua era scultorea sicuramente, la mia era di merda.
Ancor lo feci, o mia disgrazia ed infamia.
Tanto e tale è la mia boria che ignorar li fanti per stuzzicar li santi mi è pane quotidiano, pur se raffermo.
E allor dichiarai lo silenzio, che tale e tanta era la mia vergogna per aver messo mano a ciò che più non posso da dover posar l’armi immediatamente e vestire di nuovo i miseri panni sacerdotali.
Mi chiedo, pur con grande interrogazione, quanti e quali e quanto scultorei e, ovviamente ben più di me, esteticamente  regolari organismi essa dovrà ogni vespertino marittimo momento conoscere e frequentare.
Che a volte me li vedo, nelle immagini del libro delle facce e non mi paion così tristi e mesti per nulla, che anzi, oltre che luminosi fisicamente mi par tale anche l’angolo preso dal di loro apparato labiale o lo lume oculare che si affaccia dalle digitali riproduzioni….
Così ho ficcato la penna nella bocca dello drago che sempre mi perseguita, nella fornace orale dello demone vermiglio, nell’antro della doglia: lo senso estetico.
Già esso per me è fonte di quotidiana pena e crocifissione al solo rapportar me stesso con l’orrido speculo latrineo, ma anche tarlo corrosivo per alcuni rapporti che dopotutto stavano sui piedi loro.
Allor che devo dire?
Ben mi sta. Mi fu bacchettata la mano stessa con la quale recido spesso i cardiaci lacci della felicità, perché io stesso entrai in territorio sacro. E sacro ha ben specifico significato:
“La radice di sakros, è il radicale indoeuropeo *sak il quale indica qualcosa a cui è stata conferita validità ovvero che acquisisce il dato di fatto reale, suo fondamento e conforme al cosmo.[3] Da qui anche il termine, sempre latino, di sancire evidenziato nelle leggi e negli accordi. Seguendo questo insieme di significati, il sakros sancisce una alterità, un essere “altro” e “diverso” rispetto all’ordinario, al comune, al profano.”
In tal senso, come ricordami lo traduttore giudaico che aliena il Signore nostro Dio, Sacro è ciò che è messo da parte, che toccato non può essere mai dalle mani de li mortali, che è riservato cioè alle superiori stirpi che dalli cieli giunsero e che è ovviamente tanto desiderabile quanto inarrivabile per lo popolo plebe.
Poscia che questo scambio verbale fu risolto, molto in me crebbe il senso di plebe inferiore, quasi di induistica affiliazione, nello senso ben specifico di nascita escrementizia senza possibile rivoluzione di stato, in quanto lo cammino animico ciò richiede per gli scopi oscuri che si prefigge.
Tanto poco cambia, tale mia mole cerebrale di sferraglianti rotelle allo stato delle cose sullo globo terracqueo, che vedrà nel sole cocente del giorno incombente le medesime posizione sulla grande scacchiera.
La bella ha ricordato alla bestia la sua posizione.
Ella sta nei poemi e nelle poesie cortesi, io sto nelli bestiari e nelle favole scagazzainanti.
Tanto è possibile che le nostre pagine si mischino quanto che li primati escano dallo mio anale orifizio fischiettando arie verdiane.
Non aveva dubbi il cosmo di cotanta veridicità. Li ebbi io, ebbro di onirici fallici costrutti.
Mentre fuggo cerco, mentre cerco fuggo.
Per le bestie vi son li antri e le caverne, e castella et ricchezza per le dame di bello aspetto.
Non vi alcuna tragedia nel nascer orco.
Almeno finchè non si sognino le dame di altri cavalieri.
La realtà è lo stocco più spietato. E maledetto sia Apollo signore delle arti che tanto mi fece amar ciò che mi lacuna.
Su questa digital pergamena vergo tal mia lamentazione, che i miei contemporanie potranno così ben dire che tal trattazione distrugge l’apparato genitale maschile e che la mia parola benvenuta è come eczema.
Ma quando li secoli passati saranno, qualcuno leggendo i miei caratteri sospirerà e languirà d’amor vibrante, che tanto doveva esser bello quello cavalier di penna graffiante.
Ed era orco.

Si, insomma, mi sto annoiando…..

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Volevo solo rendere omaggio alla stupenda Luna di Mercoledì sera, i cui giochi di luci tra nubi che apparivano ora come onde marine, ora come scaglie di drago, mi hanno commosso e rapito fino ad impedirmi qualsiasi altra attività se non il godimento di quel commovente spettacolo gratuito.
Provare ad adottare l’ottamentro trocaico de “Il Corvo” di Allan Poe è stato come infilarsi cactus nelle mutande, ma provare a fare cose impossibili fallendo, non si sa perchè,  rimane una delle mie prerogative principali.
La vera differenza è che l’inglese si presta meglio per via della ricchezza di parole tronche, ma soprattuto c’è da dire che Edgar Allan era bravo un bel Poe. A differenza di me.
Comunque tant’è…. dovranno sparare per fermarmi.

Nel crogiuolo  dell’estate, mentre sudo le serate,

nel gocciare del momento che non tornerà mai più

sogno geli dell’ inverno, tormentandomi in eterno

osservando il tristo schermo senza guizzo di virtù.

Alla Luna chiedo udienza; bianca, pallida lassù.

Non sorride a me, non più…..

 

Quante notti alla ringhiera masticando la preghiera

sotto i raggi del pallore inondanti di lassù…

Quanti sogni al cielo tesi: ore, giorni, anni e mesi;

quanto arcane quelle notti, tutto questo non è più.

Apro al cuore il mio lamento. Tutto è stato, nulla fu:

Lune e cuori a tu per tu.

 

“Dimmi astro di marea, dimmi pallida mia Dea

mentre vedi dal tuo cielo questa ignobile realtà:

dimmi tu quale pensiero può formarsi nel mistero

di quel cosmo freddo e nero perso nell’eternità…”

Ma la luna tace e splende, non risponde, non dirà.

Splende e tace, nulla sa.

 

“Ora è cirro che t’inghiotte, oscurandoci la notte

ora è nembo che ti sfuma, digradandosi nel blu.

la tua luce che m’ inonda, come lago senza sponda,

flutto, schiuma, luce ed onda che ricade di lassù.

Troppo mare in questo cielo, dal deserto di quaggiù.

Non lo amo, no, non più.”

 

“Questo vento che mi abbraccia, quest’ argento sulla faccia

mi riporta tutto il tempo, ch’è venuto e più sarà.

Mi ricorda di potenze, desideri ed astinenze

di ritratti e dissolvenze che forgiavan la realtà.”

Ma la luna non ha suono, splende ferma e tacerà.

Se mi ascolti, non si sa…

 

“Troppi giorni da giullare, troppe seti da calmare

troppi giorni di terrore, in estrema povertà.

Troppe lacrime e sudori, poche coppe o batticuori.

Molti teschi, pochi fiori che la vita appassirà.

Luce un pallido riflesso, ciò che resta: oscurità.

Per chi luce sua non ha….

 

“Nella tetra coltre oscura, nell’abisso di paura

non v’è spada ne armatura, come ebbe il grande Artù.

Non vi sono cavalieri, non più draghi ne misteri

non ho sogni ma pensieri, non v’è premio alla virtù!

Quanto triste trascinarsi, nella mota di quaggiù.

Luna bianca, luna blu….”

 

Nel candore raggelante, quello scoglio di diamante

perso nel suo mare eterno, elegante come gru,

sente la mia voce sciocca, come sputi dalla bocca

sulle soglie d’un inferno che balbetta schiavitù.

“Ogni incanto si è dissolto, ma un fantasma dissepolto

di fortuna, per me ancora, di fortuna non c’è più???

dimmi Luna, dimmi tu!….”

 

Mi distendo sul sudario del giaciglio centenario

mentre l’astro dall’esterno le mie membra inonderà.

Tra le bare di lenzuoli io precipito dai voli,

nell’’oblio del nuovo sonno sola e certa libertà.

Nella luce mi addormento, altro mi divorerà:

il domani e la realtà.

 

“Buonanotte Dea lucente, oggi illumini un demente,

solitario tra la gente che inghiottito svanirà.

Buonanotte sogno strano, che interdetto ad ogni umano

in quell’etere d’argento sempre puro splenderà.

La bellissima Morfeo le sue braccia tende già…

Se mi cerchi, resto qua……”

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Mentre facevo benzina riflettevo su quanto si debba essere ricchi, ormai, per concedersi il lusso di darsi fuoco.
Credo di aver fatto delle mosse piuttosto discutibili, ultimamente. Mosse in qualche misura assimilabili a svariati livelli di follia, i quali però non credo siano più distinguibili dai livelli di sanità mentale…
Ho vissuto, fin dalla prima infanzia, in un mondo completamente folle.
Ovviamente, quando il primo vagito di autocoscienza sgorghi in una certa situazioni essa non può che essere considerata  l’unica realtà possibile.
Dopo tutto sembra folle, ma durante è tutto mestamente credibile.
Il mondo che conoscevo stappava petrolio dal terreno e lo trasformava in una varietà impensabile di prodotti, oltre che bruciarlo saggiamente per produrre ogni forma di energia possibile, dal semplice calore all’energia cinetica dei mezzi di locomozione.
In pratica, con saggia lungimiranza, l’umanità aveva deciso di prendere una risorsa senza alcun dubbio destinata ad esaurirsi e fondare su di essa tutta l’economia mondiale.
A me piace sempre tenere un punto di vista alieno, perché se fossi un osservatore esterno e vedessi un’intera razza comportarsi in tale maniera rischierei tutti i ventricoli a causa delle risate….
Sul momento sembrava una buona idea, sicuramente.
Soprattutto a quei pochi che avessero le mani sui pozzi di petrolio. A loro, scommetto, l’idea sarà sembrata ottima.
Tutto il resto, dalla prima trivella allo spread, è semplicemente consequenziale. Non c’è in realtà alcun buco, alcun salto, alcuna mancanza.
E’ un processo unidirezionale, prevedibile e .. tristemente scontato.
Basare tutto il benessere del mondo su un’unica risorsa significa divinizzare chiunque abbia tra le mani tale risorsa (leggere Frank Herbert aiuta…). Chiunque sia vergognosamente ricco, potrebbe, a tal punto, comprare ogni cosa.
Il problema fondamentale è proprio il fatto che l’anima umana sia variabile nel prezzo ma assolutamente mercificabile nell’essenza.
Il problema parallelo è tutto questo baraccone è destinato a sfracellarsi all’esaurimento della risorsa in questione.
Il problema secondario è che essendo tutti legati a tale risorsa, in ogni aspetto della vita, ad essa siamo tutti incatenati. Da quando dobbiamo scaldarci a quando dobbiamo sfamarci.
Il problema tangente è che questa merda impesta l’ambiente.
Il problema che genera tutti i problemi è la modalità con cui questa risorsa venga sfruttata.
Se l’uomo è oggettivamente accusabile di miopia nel basare l’intera sua sussistenza su di un bene finito, non vi sono livelli misurabili per la follia insita nella civiltà dei consumi.
Non solo è una risorsa finita, ma adoriamo sputtanarla producendo pattume.
Perché è bellino il packaging, le cose colorate, la pubblicità, le grafiche, si rincoglioniscono tutti con il glitter… ha una specie di magia suprema intrinseca.
Pensiamo che le gazze siano animali stupidi, solo perché rubano cose colorate e luminose di cui in definitiva non se ne fanno nulla.
Perfetto.
Noi invece siamo volpi del deserto. Con grande saggezza ci facciamo anche un culo come una capanna per produrre le cosine luminose e colorate che saranno perfettamente superflue.
Pochino, pochino. Una goccia di petrolio alla volta.
La grande rivoluzione industriale del XIX secolo aveva bisogno di energia. Serviva del gran vapore.
I cinesi sono rimasti attoniti, con i loro ravioli in mano, al passaggio della prima locomotiva.
Ah, ecco a che cazzo serviva il vapore!!  Mica per i ravioli….
Per  correre in giro per il mondo, far frullare i telai, le presse, le trinciatrici, i trattori, le valvole, le bielle.
CHE BIELLA LA VITA!
Produciamo, produciamo all’infinito! Con una risorsa finita vi promettiamo che la produzione sarà sempre più intensa, veloce ed accurata!
E deve crescere! Sempre!
Chi si ferma è perduto.
Correre, produrre, guadagnare, vendere, inculare, arraffare, schiattare, ereditare e ricominciare.
Il mito del lavoro che rende liberi crea le catene glitterate per gli schiavi. Finchè hanno le lucette negli occhi non capiscono nemmeno di sudare (e di suprendere).
Insomma, io sono nato in quel mondo, che per me si traduceva nei puffi di plastica che tanto agognavo.
Sono nato tra giochi di petrolio puro, nella foresta degli yuppies che correvano in cravatta ad incularsi qualche colosso, per tornare nel monolocale a sbafare avidamente un bel cibo precotto scaldato nel microonde, ultima gloria del futuro in arrivo.
Nel giro di dieci anni nessuno ci ha capito più un cazzo. Il superfluo è diventato indispensabile, il frivolo è diventato cronaca, il culo si è trasformato in bocca e viceversa.
Non avevamo ancora capito come fosse progettato l’essere umano che già lo avevamo ribaltato come un calzino.
E l’olio di pietra cosa fa, dopo vent’anni?
Niente, cala di reperibilità e sale di prezzo. A lui non frega nulla.
Io lo vedo, l’oro nero. Come un mostro appiccicoso nel sottosuolo. Con mille bolle per occhi, mille colate per tentacoli, mille getti per sfiatatoio.
Che sogghigna. Perché dal piano di sotto sente i nostri passetti isterici correre avanti ed indietro.
Le formichine che lui ha in pugno, tenute in scacco dai suoi servi fidati ed altamente addestrati, che a lui devono una divinità quasi mai raggiunta sul mondo materiale.
Tutto tra i suoi tentacoli.
Il caldo, il freddo, il lontano, il vicino, il colore, la forma, il prezzo, il valore, l’umore, la salute la vita stessa di quei piccoli animaletti isterici che corrono sulla crosta terrestre.
E mentre facevo benzina, mentre mi ricordavo quanto quella carcassa di plastica e metallo che ci aveva illuso di libertà mi tenga in scacco, mentre guardavo il cielo….
..pensavo che quella merda nera fosse sottoterra per un motivo valido.
Non che sarebbe così divertente tornare scaldarsi con il carbone e battere comunque i denti o leggere cavandosi gli occhi a lume di candela….
Pensavo solo che la follia nella gestione, dovuta unicamente all’avidità più cieca e feroce, di questa risorsa così versatile già sarebbe un motivo valido per lo sterminio della razza umana.
Quello che trovo assolutamente disgustoso e blasfemo è capire quanto poco sia saggio un umano con un oggetto potente tra le mani.
Con una gestione più oculata tutto poteva essere migliorato quel tanto che bastasse a vivere meglio.
E meglio non significava produrre scarti più belli, significava capire cosa fosse necessario e cosa fosse superfluo.
Se fosse meglio un buon prodotto in una brutta confezione che un cattivo prodotto in un imballo estasiante.
Ma adesso, davanti al computer, posso parlare in tempo reale con tutto il mondo, e non ho un cazzo da dire.
Questo punto di arrivo della nostra corsa razziale mi sembra piuttosto instabile e deludente.
Perché mi costa immense fatiche, ma non mi da alcuna scelta.
E la scelta è l’unico lusso veramente concesso agli uomini.

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Oh si, fa caldo.
Se almeno una manciata di neuroni fosse rimasta libera, potrei anche trovare il clima fastidioso. Fortunatamente ogni mia connessione cerebrale è occupata
nell'analisi di quella montagna di sterco che chiamo esistenza, in questo modo le terminazioni nervose sembrano uffici postali di frontiera.
Da essi partono e giungono informazioni sporadiche e piuttosto asincroniche all'universo.
In qualche modo, fa pensare che vi sia un tetto alla martellante sfasciatura di coglioni che la vita regala ogni giorno, non essendo noi così superumani da elaborare ogni signolo input. Gloria alla nostra limitatezza, che risparmia alcune conoscenze e ci regala la beatitudine dell'ignoranza.
Col contagocce, ma meglio di niente.
Anche il computer ha caldo. Io non ho condizionatori, e ringrazio gli Dei di ciò dopo l'ultimo conguaglio delle bollette, quindi il crogiuolo estivo avvolge il povero macchinario ansante.
A volte una ventola rauca lancia un grido sibilante, un'invocazione pietosa di spegnimento, prima di un collasso generale del sistema.
Beato lui, che ha me a comprenderlo, e cerco di lasciarlo spento almeno nei momenti più torridi.
Io non ho un superiore caritatevole che spinga il tasto salvifico dello spegnimento. Io me lo suppo tutto il calvario.
E mi sento come un un fuggitivo del vecchio west, di quelli che scappavano nel deserto con i rangers alle calcagna, speranzosi che la naturale barriera di calura e aridità scoraggiasse i seguigi lanciati alla caccia.
Forse anche quei fuggitivi, dopo qualche giorno si saranno domandati quanto buona potesse essere stata la loro idea.
Quando si saranno trovati a sputare sabbia, a sfilarsi scorpioni dagli stivali e sparare in testa al cavallo moribondo.
Certo, probabilmente i rangers si saranno scoraggiati, ma in quel momento, i fuggitivi, si saranno chiesti chi o cosa potesse salvarli dalla loro salvezza….
Il deserto non è una buona idea.
Basta un attimo per passare da pistoleri a pistoloni (imbecilli, in bolognese).
Certo mai come in questo momento mi sono sentito di aver finito anche le pallottole. In uno scontro a fuoco dovrei lanciare la pistola e sperare di colpire qualcosa con il calcio in legno.
Speranza tenue, con la mia mira…
Credo di essere in un vicolo cieco in cui mi sono imbottigliato da solo.
Io ho scelto il deserto. Io ho scelto la fuga. Io ho scelto di essere un bandito. Non è colpa del deserto, essere deserto.
Lui non è fatto per accogliermi. E' troppo caldo di giorno, troppo freddo di notte, troppo secco in continuazione e brulicante di cose velenose.
Mi stendo per qualche minuto a riposare, mentre il sole cala. Pur non avendo niente da bere o da mangiare mi illudo che le cose non vadano poi così male, mentre l'aria diventa più fresca.
Ed ecco un serpente a sonagli che mi accusa di occupazione di suolo privato e mi costringe allo sgombro forzato.
Appena socchiudo le palpebre, appena abbasso la guardia, qualcuno deve rompere i coglioni.
Devo essere sempre teso, come un clavicembalo temprato, un violino bene accordato. Mi è richiesta un'eccellenza estenuante, solo per la mia semplice esistenza…..
Ho lasciato una cameriera di saloon da qualche parte?
La squaw con la bambina appesa al collo mi cerca ancora?
Ho puntato la sveglia per l'assalto alla diligenza?
Il cavallo è vaccinato?
Lo sceriffo avrà messo una taglia sul mio collo?
Quella maledetta ballerina mi uscirà mai dalla testa?
Finirà il deserto, prima o poi?
Quanti quarti di dollaro sono rimasti nella scarsella?
Si potrebbe morire di sete senza sentire la sete per un secondo, con un vespaio di quesiti ronzante nella scatola cranica.
Poi mi ricordo di non essere nemmeno un pistolero. Nemmeno un bandito.Somiglio più al cinese che faceva da lavandaio-rosticcere-discount-cassamortaro-factotum.
Uno di quei cinesi che ci meravigliano tanto ora, ma che due secoli fa erano già alla frontiera, a lavorare come muli giorno e notte, per un pugno di dischi d'argento.
Ma come quei cinesi, non concepisco il rischio di beccarsi una fucilata, anche se un giorno di quel lavoro potrebbe rendere ricchi.
Assaltare treni non è mai stato il mio forte. Si ruba sempre a chi ne ha un pò di più, quasi mai a chi ne abbia veramente……
Il deserto offre un punto temporale fisso, tanto da essere divenuto un esercizio spirituale. Agli Scout si faceva "deserto" proprio per concentrarsi e riflettere.
Nel deserto sarebbe preferibile avere due salsicce ed una chitarra. Riflettere, dopo un pò, diventa una tortura peggiore del sole o del secco.
Ho lasciato qualcosa di prezioso da qualche parte.
Non credo che potrò tornare più a recuperarlo. Nemmeno ricordo dove l'abbia nascosto……
L'acqua non è la sola cosa che evapori nel deserto. Anche io sono secco, arido ed infuocato. Spinoso come un cactus, velenoso come uno scorpione, sferzante come sabbia nel vento.
Non attraverso più alcun deserto.
Io SONO il deserto. 

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Piove di nuovo.
Sono appoggiato allo stipite della porta, guardando il giardino flagellato dai rovesci celesti e gli alberi scompigliati dal vento.
E' umido, quasi freddo.
Dovrei essere felice, e non lo sono.
Un attimo di lucidità riporta sempre il punto di vista ad una comprensione più ampia di quella ristretta della soggettiva umana. Se fossi li fuori, sarei bagnato, infreddolito e piuttosto incazzato.
Dovrei essere felice, e non lo sono.
Ho una casa spaziosa, asciutta.
Posso scaldarmi quando è freddo, posso stare asciutto quando diluvia. Non sono lussi da poco.
Eppure….
Tutto questo tende sempre a scomparire.Tutto ciò che sia assodato tende camaleonticamente a prendere il colore impastato dello sfondo, diventando ininfluente, ridondante e scontato.
Il mio culo all'asciutto è un lusso sfrenato, per qualsiasi organismo terrestre, ed anche per molti esseri umani come me.
E non riesco a pensare ad altro, mentre osservo le fronde scosse dal vento, se non alla mia immane ed onnipresente tristezza.
Dietro il mio culo asciutto un frigorifero pieno di ogni ben di dio ronza placido, a pochi centimetri da un altro frigorifero pieno di ogni ben di dio.
Ed io sono l'essere più infelice dell'universo.
A volte, veramente, mi consumerei i piedi a forza di prendermi a calci nel culo.
Mi parevano scontate tante altre cose, divenute poi così importanti, una volta sepolte o abbandonate. Ci sono cose che mi mancano, quasi tutte abbandonate da me, alcune delle quali assolutamente irrecuperabili.
Ormai la mia vita si divide tra la noia e fatica del lavoro e la noia e basta del mio tempo libero. La vita mi risulta insopportabilmente noiosa. Ed insensata.
Sto aspettando il Mago, qui sulla porta dle giardino, davanti alla pioggia. Il Farmacista ha figliato, la Torcia Elfica ha espulso la creatura.
Il primo dei nostri amici, della nostra compagnia, a diventare padre.
Il Mago si è sposato.
Forse che sia questo ciò che dovrebbe dare un senso alla vita? Che io non riesca a desiderare tutto questo mi condanna ad lunghissimo nastro di giorni srotolati di fronte, tutti ugualmente grigi e bidimensionali?
Che le sole cose che donerebbe biologicamente un senso di pace e utilità mi siano così invise?
Io detesto i nascituri e aborro i matrimonii.
Certo, sono felice della felicità dei miei amici, ma non a livello profondamente empatico. Non è condivisone della passione. E' solo un rallegramento.
Ma in quel piccolo, piccolo, essere appena vivo io vedo la promessa di un nuovo umano sfacelo. Come se ogni volta potessi vedere me, come ero in quel momento, ed un io del futuro mi potesse urlare quanto sarebbe stato più saggio impiccarsi con il cordone ombelicale.
Allora non lo sapevo, ma per i nuovi venuti…. perchè correre il rischio?
Tutti allegri perchè arrivato qualcuno nuovo. Io già triste per lui.
Forse io sono solo questo: un essere orribilmente triste.
Un essere completamente legato all'essenza di un concetto. A Rocco è toccato il sesso, a me, la tristezza.
Che culo…
Dovrei essere felice. Almeno un pò. Come il minimo di un motore.
Perchè ho il culo asciutto, il frigo pieno e un letto comodo.
Ho una casa piena di libri computer, matite, fogli, miniature, colori, chitarre, canzonieri…. e voglia di far niente.
Niente.
Vado a cagare il cazzo agli altri, per far finta di essere vivo. O alle altre, più spesso.
Come un mendicante che cerchi un'emozione.
Ma la verità è che sono il sottoprodotto di un mondo del cazzo, che ci ha dato tutto senza darci la gioia di averlo.
Sono ancora lo stesso bambino dell'era industriale, dopo trent'anni. Mi serve un giochino nuovo o mi annoio. Oppure tutto ciò che ho mi sembra inutile e brutto.
Parlo sempre male dei ricchi e del loro mancante senso del limite, senza spostare proporzionalmente il punto di vista.
Io non sono diverso nei confronti di qualcun altro.
Non ho pace perchè non riesco ad averla, non perchè io sia così sfortunato come mi piace sempre ricordare.
Piove. Alla pioggia non frega di niente e nessuno. Cade ugualmente su tutto.
Un giorno di quasi estate che sembra autunno, un giorno come la mia vita.
Poteva essere luminoso e caldo, invece è freddo e zuppo.
Dovrei essere felice.
Ogni tanto.
Stare tranquillo.
Piovere ugualmente su ogni cosa.
Sono troppo egocentrico per spostare il punto di vista, troppo viziato per non avere sempre un nuovo desiderio, troppo stupido per godermi l'attimo.
Domani mi annoierò e faticherò. Oggi mi sono solo annoiato.
I fine settimana non si distinguono nemmeno più dal resto della settimana. Un tempo gioivo per non aver puntato la sveglia e dormire fino a tardi. Adesso mi sveglio mezz'ora dopo, rispetto a quando l'avrei puntata se avessi lavorato.
E inizio a chiedermi cosa fare, per fare venire ora di pranzo……
Alla nuova venuta auguro solo di cuore di non affrontare la vita come ho fatto io.
O subirla…. che mi pare più corretto…..

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E' un coro di oscenità e menzogne, è un coro di oscenità è menzogne.
Tutto è teatro, tutto è teatro.
Scritto male, scritto bene, assurdamente assurdo e comicamente tragico. Appoggiato ad un muro, svaccato su una panchina, seduto ad un bancone… come hai recitato bene la tua parte di pagliaccio triste!
Che intensità, che interpretazione, che immedesimazione. Hai sudato più di una rockstar sotto quel cerone bianco, e sei stato ciò che non sei, per più tempo di quanto dovesti.
Ed ora, chi sei?
Sei salito, arrampicandoti, su palcoscenici altrui. Ti sei inserito in altrui duetti, cercando un controcanto di note gravi alle quali spesso non arrivavi. Perchè la natura ti ha dato talento senza darti abilità.
Non sei destro e non riesci nemmeno ad essere sinistro.
Perchè non sei inquietante ne minaccioso.
Hai lo stesso carisma di uno scudo umano, di un pupazzo da crash test, come villain.
Ti sarebbe piaciuto…..
…che i riflettori avessero puntato su di te.
Ma non era così. Eri tu che rincorrevi il loro ovale luminoso, sbattendo contro le coppiette che limonavano nell'ombra. Un caprone sudato vestito da giullare che insegue un cerchio di luce in un teatro buio.
E ti piaceva crederlo, di avere delle carte da giocare. Mentre il gioco si svolgeva intorno, sotto , dietro e al di fuori di te.
E dall'ombra ti pervenivano le risatine soffocate, i mugolii, i sussurri dei burattinai.
Il tuo istinto sapeva tutto, come se fosse luce accecante quell'oscurità vellutata. Vedevi e non volevi vedere. Capivi e non volevi capire.
Sai che tutti mentono. Omettono, distorcono, travisano e saltellano sulle semantiche. Il passo doble delle falsità ti circonda con uno scapliccìò soffocato.
Stanno ballando intorno al capocomico, le menzogne in tutù.
Chi, mai, commediografo sano di mente, punterebbe sulla realtà il riflettore?
Tu, solo, cerchi di essere onesto su un palcoscenico. Tu vuoi diventare il pagliaccio che impersoni, mentre tutti gli altri sanno che finito il lavoro il costume cadrà e rimarrà un miserrimo umano qualsiasi.
Ma tu non lo accetti. Tu vuoi essere commedia sempre. Vuoi che il sole sia il tuo riflettore, che il mondo sia una platea intenta ad osservarti.
Ma non è così.
Non una stella guardando verso terra si accorgerà di te. Gli sguardi che hai creduto rivolti a te guardavano le quinte, le seste, i camerini, l'uscita di servizio, i gatti in amore nel vicolo dietro il teatro.
Ogni cosa tranne te.
La verità è che non sei stato scritturato. Sei un debuttante allo sbaraglio.
Perfino ora, segui le tue speranze come l'aroma di una cucina lontana. Ti brontola lo stomaco perchè non mangi da troppo. La saliva offusca la ragione, in molteplici maniere.
Speri e non percepisci, annulli così l'unica abilità che veramente tu possieda.
Il tuo istinto, il tuo intuito, sapevano benissimo quello che stava succedendo. Sapevi il copione prima che gli attori aprissero bocca.
Ma era più bello illudersi che il copione fosse stato riscritto, per permetterti un'entrata trionfale. A sorpresa.
Sorpresa sorpresa:
La realtà è esattamente come l'avevi percepita.
La tua immaginazione l'ha edulcorata. Ed è cancerogena, maligna e tentatrice come un doclificante, la tua speranza.
Ora, visto che ci sei salito a forza, su quel tavolato, o caghi o tiri su le braghe.
L'unica cosa rimasta da fare è il tuo numero migliore, l'unico che ti riesca veramente.
Perchè se osservi attentamente, ti accorgerai di non essere in un teatro.
Sei in un giardino.
Sei su un piccolo piedistallo alto una spanna.
Il tuo sangue è un'arabesco di vene ed arterie di ghiaccio vestroso e fumante.
Le tue carni sono liscia, levigata, compatta e fredda pietra.
La statua.
Il personaggio definitivo, l'eternità del protagonismo.
Il più difficile dei ruoli.
L'eco della menzogna o della scusa giunge ovattato e distorto ai tuoi timpani di sasso. La pioggia non ti raffredda o scioglie.
Il tuo numero ora è fermo, sospeso nel corso del tempo; che tu attraverserai. Silente ed immobile.
Attendi un tentacolo d'erba, che avvinghii un tuo calcagno. Attendi che salga, che ti cinga i fianchi, che ti faccia sentire stretto e portante.
Una piccola cosa viva con la quale farai l'amore con assoluta fermezza e silenzio.
Fin quando non ti sbriciolerà.
Perchè se davvero vuoi fare il cavaliere, allora devi ammettere che l'unica vera funzione del cavaliere stia nel perdere da eroe, non nel vincere.
Egocentrico come sei, vuoi solo ruoli che sfiorino l'impossibile.
Perchè attendi l'unico applauso a te diretto che non sentirai mai:
IL TUO.

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Caro amico sconosciuto,
getto tra i flutti della rete la mia moderna bottiglia telematica, non sapendo dove questo mare indefinito la possa portare, ma questo, in fondom non è importante. Ciò che importa è che vi sia una piccola testimonianza vagante del pensiero umano o, quantomeno, di ciò che per me è considerabile come tale. Se questo messaggio sia in grado di attraversare lo spazio ed il tempo non mi è dato sapere, l'unica cosa a me nota è il bisogno di lanciare ad una immensità ignota ciò che nella mia limitatezza sia conosciuto.
Ho trentatrè anni e vivo in Italia.
Il mio paese è stato patria e genitura di menti illustri e geniali, ha conosciuto imperi, guerre, divisioni continue ed infinite lotte intestine, è stato grande a volte, piccolo per la maggior parte del tempo e quasi sempre schierato a favore di chi lo favorisse.
E' abitato da esseri umani, come me e te, e questo non può certo giovargli, ma ciò che mi rende atterrito, ultimamente, è la connaturata abilità di tali esseri nell'esercizio delle più basse e controproducenti attività sociali.
Non è facile, posso assicurartelo, tentare di mantenere un pensiero civile ed il più possibile oggettivo all'interno di una trincea in fiamme.
Mi è stato insegnato, sotto la possente cupola ideologica dell'aura cristiana che avvolge la cultura generale di tale paese, ad essere attentamente rispettoso delle altrui libertà, il più possibile giudizioso negli atteggiamenti personali e assolutamente critico nei confronti di me stesso. Questo avrebbe dovuto portare, nella favola che mi venne narrata in infanzia, alla mia realizzazione come abitante del mondo, alla condanna di una fatica incessante ma ben ricompensata per la crescita della mia collettività e ad un riposo meritato nell'ora del mio stesso tramonto.
Posto che io non sia mai stato d'accordo nemmeno su tale favola, non ho mai trovato motivo di preoccupazioni generali, additando me stesso quale entità inadatta, ma facendo salvezza del sistema costituito; il quale, pur con numerosi attriti ed inceppamenti, sembrava funzionare.
Ma tutto questo, sempre che sia stato, non è più.
Nel mio paese regnano unicamente sogni distorcenti, incubi stordenti e chiacchiere invadenti.
Non vi è alcuna prospettiva per alcuno, non vi è alcuna evoluzione, non vi è alcuna luce che segnali l'uscita dall'ipotetico tunnel. In questa dimensione viene a mancare ciò che più di ogni altra passione mantenga in vita i membri della nostra razza: la speranza.
Io non so, caro amico ipotetico, in quale paese tu viva. Potrebbe essere persino peggiore del mio, ma stento a crederlo.
Pur sotto il giogo delle peggiori dittature, delle forze più stritolanti e totalitarie o dei regimi più spietati ed invasivi rimane ben visibile la traccia del potere ed il suo effetto.
Rimane allo schiavo l'unica vera occasione di salvezza rimastagli: la visione della propria catena.
Nel mio paese è stato possibile travestire da libertà la costrizione e da libera scelta la coercizione.
Siamo immersi in un liquido, il quale non conosce porte o finestre. Esso trasuda, gronda, gocciola, persino con lentezza esasperante, attraverso le pur minime fenditure, arrivando ad attaccare il cuore più profondo dell'umana coesistenza: l'empatia.
Senza empatia non può esistere civiltà, perchè essa è il veicolo principale della compassione, nel suo vero significato di "condivisione della sofferenza", non nel significato snaturato oggi in uso di "pietà per il più sfortunato".
E' possibile avere compassione solo se si possiede la capacità di condividere il sentimento. Quando noi esseri umani vediamo un altro umano soffrire ci sentiamo subito disgustati e spaventati, perchè l'identificazione è automatica.
In questo paese, di norma, non è molto in voga tale identificazione.
Per natura l'italiano trova più realizzazione nel sentirsi superiore agli altri, per furbizia o per possibilità, trasformando appunto l'empatia in antipatia.
Sebben sia un termina dall'accezione negativa, l'antipatia è divenuta oggigiorno il vero stendardo sotto cui si raduna la valorosa ciurma dei vittoriosi, in questo paese. Più il livello di inciviltà si innalza, più il disprezzo delle regole diviene manifesto, più la barocca manifestazione del potere diviene oscena e plateale, più si viene innalzati.
Questa perniciosa capacità degli italiani è rilevabile ad ogni stato di aggregazione civile, non solo nei macrosistemi enumerati in milioni di soggetti. Ho sempre rilevato questo arrivismo bieco e macchiavellico in ogni gruppo sociale a cui abbia aderito. Non ho mai rilevato una maggiore capacità di guida, da parte di coloro che ambissero a posizioni superiori, ma unicamente il fregio stesso dello status ottenuto. Nessuno che io abbia visto guidare una collettività lo faceva per merito di capacità. Guidava perchè sapeva di essere al comando, non era al comando essendo in grado di guidare……
Questo ha generato ovviamente un'idiosincresia, nei confronti del potere che avrebbe dovuto governare.
Abbiamo sempre vissuto in un paese che giudicava lo "stato" come un nemico, un cancro alieno che attentasse al nostro benessere. Ben pochi hanno mai parlato dello stato utilizzando l'unico pronome che avrebbe spiegato tutto: "NOI". Ognuno era "stato", in uno stato che era percepito come "altro" ed "opposto".
La volontà quindi di aggirare lo stato, è sempre stata manifesta ed ottimamente perseguita, persino quando questo stato non fosse altro che la comunità in cui si vivesse. Tutti hanno pensato di fregare un'entità superiore, aliena e terribile, mentre fregavano il mondo che preparavano per i propri figli, e se stessi.
L'attaggiamente italiano è del tutto basato sull'invidia.
Ci si oppone o si tenta l'emulazione unicamente di chi generi sentimento d'invidia.
Chi ha capito tale effetto non ha perso tempo nell'allungare le mani sullo scettro del potere, facendo dell'invidia una nuova religione. Ha creato nuovi santi e divinità decadenti, per guidare i desideri e tenere le menti impegnate in faccende senza alcuna conseguenza od importanza per l'evoluzione umana.
Mentre ti scrivo, le mie orecchie grondano di parole ridondanti, che sento vomitare dagli schermi e dagli altoparlanti senza tregua. In questo paese il chiecchiericcio idiota e pettegolo è ormai considerato la più alta forma di dibattito civile.
La confusione, che è sempre stata l'arma più affilata di chi si trovasse alle leve del comando, è divenuta un vero caos primordiale, un brodo indistricabile in cui galleggiano frammenti di tutto e nulla, alla deriva.
Su questo brodo c'è chi sfreccia con barche di lusso e chi affonda annaspando, ma non è nemmeno questo l'importante, perchè così è sempre stato in ogni società umana ed ho perduto ogni illusione che possa essere differente il destino della mia (mio malgrado) razza.
Ciò che mi toglie ogni speranza è che persino la più piccola cellula di questa entità-stato sia stata attaccata e contaminata da questo virus.
Ormai vi sono solo due tipi di codardi: chi non riesca a frenare il proprio impulso di soverchiamento e chi non faccia altro che frenare il proprio impulso di sovversione.
Io appartengo alla seconda categoria. Non perchè io sia un santo, ma semplicemente perchè ho vissuto e sono stato educato in maniera differente.
Ho sempre creduto che la modesita fosse la prima chiave d'accesso alla simpatia. Non ho mai fatto vanto dei miei successi, ed ho sempre messo ben in evidenza i miei fallimenti.
Ho sempre creduto, e credo ancora, che gli esseri  umani si misurino sulla coerenza nei confronti delle proprie idee, comunque e qualunque esse siano. Ho sempre creduto che la  realizzazione di un essere umano passasse non solo attraverso ciò che egli ottenesse, ma sopratutto attraverso ciò a cui rinunciasse.
In questo stato, rinunciare a qualcosa in favore di un'idea, è un concetto talmente avulso da sconfinare nella pazzia.
In questo paese colui che rinunci spontaneamente a qualcosa di desiderabile perchè eticamente o moralmente scorretto viene etichettato come "coglione".
Vi è una forma di adorazione, nemmeno troppo sotterranea, per chi borseggi con stile ed un disprezzo piattamente retorico per chi si opponga con l'astensione. (Nel mentre si chiede di rinunciare ancora un pò a chi abbia sempre dovuto farlo, mantendo ben alto il livello di allenamento.)
Il potere, in questo paese è fatto unicamente di forma, non di sostanza. E' fatto di immangine, non di contenuto.
Il potere deve essere mostrato e dimostrato, senza freno all'atavica fame di possessione del "tutto".
Caro amico lontano, non so come funzioni il tuo paese, non so chi tu sia e come tu viva.
Vorrei solo dirti che non credo affatto che le mie idee fossero sbagliate. Credo che in questo paese sia sbagliato principalmente avere delle idee, perchè si è condannati ad una sofferenza senza fine e senza colpa.
Vorrei solo un attimo di verace compassione, da parte tua. Vorrei poter credere che il pensiero di una mente libera, anche in un mare virtuale, possa arrivare un pelo più vicino alla linea di orizzonte di quanto potrò mai fare io.
Vorrei che qualcuno si ricordasse che non esiste un mondo di luci, colori, piaceri ed irresponsabilità.
La responsabilità è il vero lavoro dell'uomo, non costruire bulloni o copertoni.
La responsabilità di sentirsi parte, non al di sopra delle parti.
Quello è un sogno che tutti noi umani abbiamo di tanto in tanto. Ma deve rimanere limitato al proprio fumoso universo onirico, che è sacrosanto e va difeso strenuamente. Ma la linea di confine deve essere ben chiara.
Chiunque ci racconti che siamo tutti piccoli imperatori sta cercando di ottenere schiavi consenzienti.
Io non cambierò mai il mondo, e probabilmente nemmeno un'idea. Come codardo posso solo lanciare la bottiglia ad uno sconosciuto. Perchè se per caso trovasse giuste le mie idee, potrebbe chiedermi di guidarlo.
Io non posso guidare nessuno, però. Nessuno può guidare nessuno. Ma tutti dovremmo avere il coraggio di guidare noi stessi, attraverso le anguste fenditure tra gli spazi un cui si muovono tutti gli altri.

P.s.
Non ho fatto alcun nome. Nemmeno il mio. Perchè noi umani ci aggrappiamo troppo ai nomi. Pensiamo che eliminato un nome sia elimato un problema. Ma il problema è nelle nostre menti, nelle nostre cellule, nella nostra storia.
Queste righe possono essere state scritte da chiunque, in qualunque epoca. Solo la connotazione geografica è chiara, perchè è l'unica all'autore ben nota.

N.

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